I tempi di approvazione dei progetti duplicano e triplicano (in alcuni casi quintuplicano). Per sbloccare questa situazione servono interventi normativi e un dialogo costruttivo e continuo con territori e comunità.
Sul fronte rinnovabili siamo di fronte a una storia già letta. Da una parte gli obiettivi della transizione ecologica e del piano energetico nazionale (giusto per ricordare: il target è quello di installare 7-8 gigawatt l’anno da fonti rinnovabili), resi ancora più urgenti dalla situazione di crisi internazionale che ha rivelato tutto il peso della dipendenza italiana dal gas russo. Dall’altra una realtà costellata da iter burocratici complessi e infiniti, stop da parte delle Sovrintendenze, contestazioni aspre e a volte poco gestibili delle comunità locali. Una situazione che ricorda un po’ il tormento di Sisifo, perennemente inchiodato alla fatica di dover trascinare un masso fino in cima al monte per poi vederlo rovinare nuovamente a valle. Dalla parte sbagliata.
Il risultato? Come raccontato da Jacopo Giliberto su Il Sole 24 Ore, quello che non succede in Italia è che più del 90% degli impianti da eolico e solare non ha superato nel 2021 lo stadio cartaceo. E per quanto riguarda il fotovoltaico, è ancora in attesa di approvazione il 79,5% dei 14mila megawatt richiesti nel 2020 e il 92,4% dei progetti presentati l’anno passato. Se sui vizi procedurali si può fare poco, a parte mettere in luce le loro contraddizioni, sul fronte delle opposizioni locali e dei rapporti con le pubbliche amministrazioni si può agire. È qui che la comunicazione, con i suoi processi di dialogo, ascolto e ingaggio, può venire in aiuto.
Rinnovabili: come in un film di fantascienza il tempo si espande a dismisura
Quando si parla della realizzazione di questo tipo di infrastrutture energetiche, il concetto di rapidità è naturalmente un eufemismo. Fatta questa premessa, i progetti delle rinnovabili, almeno sulla carta, potrebbero essere realizzati in tempi ragionevoli: un parco fotovoltaico o eolico potrebbe vedere la luce, a seconda della dimensione, entro uno o due anni dall’autorizzazione. Potrebbe. Un iter realizzativo sicuramente più snello di quello necessario, ad esempio, per mettere in funzione un rigassificatore (si pensi a quello di Porto Empedocle, che, vista la crisi energetica, dopo oltre 10 anni è stato nuovamente sbloccato ma chissà quando diventerà operativo).
Di per sé, quindi, le rinnovabili potrebbero essere una soluzione pratica e realistica non solo in ottica di contrasto al cambiamento climatico ma anche per reagire all’attuale crisi energetica in tempi relativamente rapidi. Eppure, vizi di forma burocratici, norme disomogenee, discrezionalità nelle autorizzazioni e contrasti con il territorio bloccano tutto. Moltissimi impianti, infatti, che hanno avviato l’iter nel 2018-2019 non lo hanno ancora visto concluso: secondo il report di Legambiente “Scacco matto alle rinnovabili” per ottenere l’autorizzazione per un impianto eolico possono volerci anche 5 anni contro i 6 mesi previsti dalla normativa. E ancora, secondo Confindustria l’intero iter autorizzativo per gli impianti di produzione da fonti rinnovabili, allacciamento alla rete elettrica compreso, in media si conclude in 109 mesi a livello nazionale. Nove anni. Non serve commento.
È sufficiente l’intervento dall’alto del Governo per sbloccare i progetti di rinnovabili?
Continuano le querelle tra Ministero della Transizione Ecologica e Ministero dei Beni Culturali. Uno che vuole spingere l’acceleratore sulla produzione di energia pulita, l’altro che, a nome della tutela dei paesaggi e del territorio, pone il veto a gran parte dei progetti. Per uscire da questo impasse, è intervenuto il Consiglio dei Ministri che a febbraio ha sbloccato otto parchi eolici. Per sbrogliare la situazione serve quindi il deux ex machina, che dopo discussioni, fatiche e blocchi arriva dall’alto a risolvere la questione? È sostenibile questa modalità? Queste spinte dal governo saranno sufficienti per raggiungere gli obiettivi al 2030 oppure andrebbe un po’ ripensata tutta la macchina amministrativa, autorizzativa e burocratica per non incagliare i progetti di rinnovabili in iter di cui non si vede la fine, valutazione dopo valutazione? Ai posteri l’ardua sentenza.
Il fenomeno Nimby colpisce ancora 
Oltre ai disagi normativi e burocratici, non va assolutamente sottovalutato il peso che il fenomeno Nimby (Not in my backyard – non nel mio giardino) ha sui ritardi delle rinnovabili. Perché, se in via preventiva e iniziale non si è aperto un canale di comunicazione, ascolto e dialogo con il territorio, con grandissima probabilità il progetto sarà osteggiato da comitati di contestazione locale. Che possono avere un peso significativo sulle scelte delle amministrazioni comunali, specie se di piccole realtà. Per avere un’idea delle innumerevoli ragioni dietro ai “no” alle rinnovabili, della pervasività del fenomeno e del livello di ostilità che assume il dibattito, consiglio il recente articolo di  Giacomo Talignani Pale eoliche? Non nel mio giardino che raccoglie dieci storie di Nimby. 
Cosa fare per prevenire queste situazioni di stallo e mitigarle una volta in atto?
Un aspetto che non andrebbe mai tralasciato è la comunicazione e la relazione con il territorio e le comunità. Chiudersi dietro all’iter burocratico-amministrativo serve a ben poco.
Negoziazione, accettabilità e reputazione
Perché un impianto di rinnovabili possa essere accettato da una comunità locale, è necessario coinvolgere il territorio e mettere in piedi un percorso di dialogo e ascolto con tutte le sue componenti. Comune e Regione, quindi, ma anche tutti gli altri stakeholder non istituzionali (cittadini, associazioni ambientaliste, mondo accademico, ecc.).
Ci sono degli interventi che possono portare un valore aggiunto sul territorio, al di là delle compensazioni che un’azienda deve dare per legge al Comune in cui insiste l’impianto? L’obiettivo è superare i semplici obblighi a norma di legge e andare incontro alle richieste della comunità, che spesso non sono solo economiche ma intendono valorizzare il territorio nelle sue specificità. E per fare questo non si può che mettersi in ascolto, aprendo un dialogo trasparente, interessato, compartecipato con gli stakeholder.
Proprio il dialogo diventa un elemento portante per creare una sorta di accettabilità sul territorio – che passa anche dalla costruzione della reputazione – e favorire così la realizzazione del progetto. Potrebbe essere necessario negoziare alcuni aspetti dell’impianto per incontrare le esigenze e le richieste della comunità, è vero. Meglio una negoziazione parziale, però, rispetto al rischio totale di fallimento.
Emilio Conti
				 
					
L’insostenibile inerzia delle rinnovabili
I tempi di approvazione dei progetti duplicano e triplicano (in alcuni casi quintuplicano). Per sbloccare questa situazione servono interventi normativi e un dialogo costruttivo e continuo con territori e comunità.
Sul fronte rinnovabili siamo di fronte a una storia già letta. Da una parte gli obiettivi della transizione ecologica e del piano energetico nazionale (giusto per ricordare: il target è quello di installare 7-8 gigawatt l’anno da fonti rinnovabili), resi ancora più urgenti dalla situazione di crisi internazionale che ha rivelato tutto il peso della dipendenza italiana dal gas russo. Dall’altra una realtà costellata da iter burocratici complessi e infiniti, stop da parte delle Sovrintendenze, contestazioni aspre e a volte poco gestibili delle comunità locali. Una situazione che ricorda un po’ il tormento di Sisifo, perennemente inchiodato alla fatica di dover trascinare un masso fino in cima al monte per poi vederlo rovinare nuovamente a valle. Dalla parte sbagliata.
Il risultato? Come raccontato da Jacopo Giliberto su Il Sole 24 Ore, quello che non succede in Italia è che più del 90% degli impianti da eolico e solare non ha superato nel 2021 lo stadio cartaceo. E per quanto riguarda il fotovoltaico, è ancora in attesa di approvazione il 79,5% dei 14mila megawatt richiesti nel 2020 e il 92,4% dei progetti presentati l’anno passato. Se sui vizi procedurali si può fare poco, a parte mettere in luce le loro contraddizioni, sul fronte delle opposizioni locali e dei rapporti con le pubbliche amministrazioni si può agire. È qui che la comunicazione, con i suoi processi di dialogo, ascolto e ingaggio, può venire in aiuto.
Rinnovabili: come in un film di fantascienza il tempo si espande a dismisura
Quando si parla della realizzazione di questo tipo di infrastrutture energetiche, il concetto di rapidità è naturalmente un eufemismo. Fatta questa premessa, i progetti delle rinnovabili, almeno sulla carta, potrebbero essere realizzati in tempi ragionevoli: un parco fotovoltaico o eolico potrebbe vedere la luce, a seconda della dimensione, entro uno o due anni dall’autorizzazione. Potrebbe. Un iter realizzativo sicuramente più snello di quello necessario, ad esempio, per mettere in funzione un rigassificatore (si pensi a quello di Porto Empedocle, che, vista la crisi energetica, dopo oltre 10 anni è stato nuovamente sbloccato ma chissà quando diventerà operativo).
Di per sé, quindi, le rinnovabili potrebbero essere una soluzione pratica e realistica non solo in ottica di contrasto al cambiamento climatico ma anche per reagire all’attuale crisi energetica in tempi relativamente rapidi. Eppure, vizi di forma burocratici, norme disomogenee, discrezionalità nelle autorizzazioni e contrasti con il territorio bloccano tutto. Moltissimi impianti, infatti, che hanno avviato l’iter nel 2018-2019 non lo hanno ancora visto concluso: secondo il report di Legambiente “Scacco matto alle rinnovabili” per ottenere l’autorizzazione per un impianto eolico possono volerci anche 5 anni contro i 6 mesi previsti dalla normativa. E ancora, secondo Confindustria l’intero iter autorizzativo per gli impianti di produzione da fonti rinnovabili, allacciamento alla rete elettrica compreso, in media si conclude in 109 mesi a livello nazionale. Nove anni. Non serve commento.
È sufficiente l’intervento dall’alto del Governo per sbloccare i progetti di rinnovabili?
Continuano le querelle tra Ministero della Transizione Ecologica e Ministero dei Beni Culturali. Uno che vuole spingere l’acceleratore sulla produzione di energia pulita, l’altro che, a nome della tutela dei paesaggi e del territorio, pone il veto a gran parte dei progetti. Per uscire da questo impasse, è intervenuto il Consiglio dei Ministri che a febbraio ha sbloccato otto parchi eolici. Per sbrogliare la situazione serve quindi il deux ex machina, che dopo discussioni, fatiche e blocchi arriva dall’alto a risolvere la questione? È sostenibile questa modalità? Queste spinte dal governo saranno sufficienti per raggiungere gli obiettivi al 2030 oppure andrebbe un po’ ripensata tutta la macchina amministrativa, autorizzativa e burocratica per non incagliare i progetti di rinnovabili in iter di cui non si vede la fine, valutazione dopo valutazione? Ai posteri l’ardua sentenza.
Il fenomeno Nimby colpisce ancora
Oltre ai disagi normativi e burocratici, non va assolutamente sottovalutato il peso che il fenomeno Nimby (Not in my backyard – non nel mio giardino) ha sui ritardi delle rinnovabili. Perché, se in via preventiva e iniziale non si è aperto un canale di comunicazione, ascolto e dialogo con il territorio, con grandissima probabilità il progetto sarà osteggiato da comitati di contestazione locale. Che possono avere un peso significativo sulle scelte delle amministrazioni comunali, specie se di piccole realtà. Per avere un’idea delle innumerevoli ragioni dietro ai “no” alle rinnovabili, della pervasività del fenomeno e del livello di ostilità che assume il dibattito, consiglio il recente articolo di Giacomo Talignani Pale eoliche? Non nel mio giardino che raccoglie dieci storie di Nimby.
Cosa fare per prevenire queste situazioni di stallo e mitigarle una volta in atto?
Un aspetto che non andrebbe mai tralasciato è la comunicazione e la relazione con il territorio e le comunità. Chiudersi dietro all’iter burocratico-amministrativo serve a ben poco.
Negoziazione, accettabilità e reputazione
Perché un impianto di rinnovabili possa essere accettato da una comunità locale, è necessario coinvolgere il territorio e mettere in piedi un percorso di dialogo e ascolto con tutte le sue componenti. Comune e Regione, quindi, ma anche tutti gli altri stakeholder non istituzionali (cittadini, associazioni ambientaliste, mondo accademico, ecc.).
Ci sono degli interventi che possono portare un valore aggiunto sul territorio, al di là delle compensazioni che un’azienda deve dare per legge al Comune in cui insiste l’impianto? L’obiettivo è superare i semplici obblighi a norma di legge e andare incontro alle richieste della comunità, che spesso non sono solo economiche ma intendono valorizzare il territorio nelle sue specificità. E per fare questo non si può che mettersi in ascolto, aprendo un dialogo trasparente, interessato, compartecipato con gli stakeholder.
Proprio il dialogo diventa un elemento portante per creare una sorta di accettabilità sul territorio – che passa anche dalla costruzione della reputazione – e favorire così la realizzazione del progetto. Potrebbe essere necessario negoziare alcuni aspetti dell’impianto per incontrare le esigenze e le richieste della comunità, è vero. Meglio una negoziazione parziale, però, rispetto al rischio totale di fallimento.
Emilio Conti
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